Essere abbandonati è una ferita. Si forma tra il cuore e i polmoni, si allarga molto, anzi, ai polmoni, si forma nel cuore e poi si distende, si allarga ai polmoni, che si affannano a far entrare più aria, perché l’essere abbandonati smorza il fiato, è pugno allo stomaco, costringe a piegarsi in due e quando ci si rialza non si è così dritti come prima.
Leggo una pagina di Livia Candiani Chandra, in Questo immenso non sapere e qualcosa di nuovo mi entra. Lei parla di essere abbandonabile, nel senso che essere abbandonati è una possibilità imminente e talvolta auspicabile. L’essere abbandonati procura dolore, ma possiamo permettere di essere abbandonati. Quando non c’è l’incontro, quando la relazione stenta a crearsi, quando non ci sono le condizioni per intendersi senza fatica – scrive Lidia Candiani – allora «abbandonami», è un invito liberante. Non è obbligatorio tenermi, frequentarmi è facoltativo. E questo dà molta leggerezza e grazia all’incontro. Non è facile accusare il colpo, il pugno allo stomaco, impedimento alle funzioni vitali, ma poi si sente che sopra la testa e tutt’intorno si allarga un grande spazio libero. C’è più sfondo e un sentore appena accennato di nuove possibilità. […] Un profumo fresco di bucato appena steso, di pavimento appena spazzato e poi lavato. Con cura. Con le finestre aperte.
L’essere abbandonabile chiede forza interiore. Mi permetto di essere abbandonata, perché dentro di me non rimane il vuoto. Al contrario, posso avere spazio per altre relazioni, se si mostrano di comunicazione semplice. Non passa subito il dolore allo stomaco; tuttavia, la libertà che ci si dà di farci abbandonare porta un vento leggero, che soffia sul cuore, è aria fresca per i polmoni.