La figura del counsellor in Italia è nota in ambiti di acquisizione di consapevolezza, di aiuto in situazioni di disagio. È meno nota alla maggioranza della collettività sociale. Non è superfluo, quindi, che mi soffermi su un aspetto nodale del colloquio tra il cousellor e la persona.
Nel corso della vita attraversiamo momenti di passaggio: la fine di un percorso scolastico; l’inizio della carriera lavorativa; il pensionamento; il lutto; il trasferimento da una casa, città, nazione a un’altra; l’incapacità di riconoscere la fine di una relazione importante o di iniziare una relazione importante; la nascita di un bambino. Numerosi i casi in cui possiamo non sapere come comportarci o quali decisioni prendere. Ancora di più sono i casi in cui non sappiamo riconoscere lo stato d’animo, il sentire che ci pone nell’indecisione, nella confusione, nello scoraggiamento, nella sofferenza. Poco utili risultano essere i consigli di familiari, amici e colleghi, perché percepiti con un punto di vista personale o giudicanti o direttivi. Al contrario, è compito del counsellor accompagnare la persona in un processo di riconoscimento dei propri sentimenti, di discernimento delle decisioni e delle azioni da prendere.
Carl Rogers, psicoterapeuta, basa la filosofia del suo metodo terapeutico focalizzandosi sulla modalità di interazione tra il counsellor e la persona che chiede aiuto. La sue parole, in proposito, sono chiare:
Il terapeuta deve lasciare da parte la sua preoccupazione di dare valutazioni professionali, deve smetterla con i suoi tentativi di guidare l’individuo e deve concentrarsi solo su uno scopo: quello di arrivare a una profonda comprensione e accettazione degli atteggiamenti consci del cliente nel momento in cui egli esplora passo per passo le pericolose aree che gli hanno impedito di emergere alla sua coscienza.
In altre parole, la persona che chiede aiuto non viene in realtà aiutata se il counsellor la dirige, la guida, se a lei si sostituisce nel percorso di riconoscimento degli ostacoli che la bloccano nell’impotenza. Al contrario, un atteggiamento di profonda fiducia da parte del counsellor, un atteggiamento empatico, consente alla persona di esplorare le aree ombrose che impediscono di riemergere a livello coscienziale. È faticoso stare nell’esplorazione, poiché questa chiede tempo, forza, resistenza. Il lavoro del counsellor è stare accanto alla persona, affinché non perda il coraggio di riconoscere sia ciò che procura sofferenza sia le capacità per superarla, quella sofferenza.