C’è qualcosa di più forte del dolore, ed è l‘abitudine.
È la frase di apertura del primo capitolo di Trema la notte di Nadia Terranova, storia di un bambino di undici anni, Nicola, e di una ragazza di venti, Barbara, incontratisi per caso in una situazione di violenza fisica e psichica la notte del 28 dicembre 1908, la notte del terremoto a Messina e Reggio Calabria. L’autrice è originaria di Messina, frequentemente ambienta le sue storie in questa città che, rispetto ad altre della Sicilia, risulta essere con meno carattere, forse perché, come lei scrive nel romanzo, è stata costruita sulle macerie e sui morti.
– Che paesaggio meraviglioso avete qui. Vi affacciate al mattino e ammirate la bellezza – dico a un caro amico.
– Non credere – mi risponde – ci si abitua a tutto, anche alla bellezza.
Dolore. Abitudine. Bellezza.
Metto insieme le due sollecitazioni – la frase del romanzo e lo scambio di battute con il mio amico – e rifletto sulla caparbietà dell’abitudine, sulla permanenza nel dolore, sull’indifferenza alla bellezza. Nel romanzo della Terranova la madre di Nicola è una carnefice, un diavolo, che sottopone il figlio a torture impossibili da giustificare. Eppure, appena la fine del mondo arriva nella sua città, Reggio Calabria, Nicola si sente perso, gli manca la prigione fisica e psichica dentro cui era cresciuto. Possono sembrare solo parole romanzate; tuttavia, se siamo attenti e attente a scorgere le proprie prigioni, il proprio dolore, senza perderci nella ricerca delle cause o dei colpevoli, se ci si attiene alla costrizione e alla mancanza di libertà in cui viviamo, possiamo comprendere che l’abitudine, l’assuefazione, l’attaccamento a ciò che ci fa male è spesso più forte dell’inversione di comportamenti e di pensieri. Ciò che, a mio avviso, è ancora più grave è la mancanza di consapevolezza della prigione o delle prigioni in cui viviamo. Ci consoliamo dicendo che la vita è fatta di sacrificio e dolore, senza cercare le distinzioni obbligatorie per vivere in modo dignitoso. Per esempio, le relazioni familiari amicali e lavorative sono faticose, necessitano di continuo dialogo e discernimento, portano sofferenza, ma, se si cessa di cercare altre vie di comunicazione, finiamo diritti in una prigione esistenziale, convincendoci con un «non posso fare diversamente». A volte ci sembra che sia più faticoso cercare nuove strade di dialogo che vivere nel dolore, perché a quel dolore ci siamo abituati, mentre le nuove strade sono sconosciute, e ciò che non conosciamo ci può spaventare.
Le abitudini ci agevolano la vita. La gravità risiede nella non consapevolezza delle abitudini invalidanti che abbiamo assorbito come inevitabili. Dormire in una cantina, per il Nicola del romanzo, era consuetudine a cui non sapeva sottrarsi. Se la violenza subita non è riconosciuta e allontanata da sé, sarà riprodotta su altre persone.
Quando non ci accorgiamo più della bellezza, per abitudine, per visione quotidiana, commettiamo un reato contro noi stessi. L’espressione è forte, lo so. La bellezza fa tornare alla nostra bellezza interiore, la bellezza ci riappacifica, nutre, ci pone al di sopra della nostra umanità, eleva, ci fa percepire la vena divina che è in noi. Se per abitudine non la vediamo più, ciò significa che non vediamo più la nostra di bellezza, la nostra unicità; e così cadiamo talmente in basso che acconsentire alle prigioni interiori ci pare cosa normale e ovvia, invece che anomala e distorta.
Sradicare un’abitudine malsana per sostituirla con una sana è impresa grande. Ci è più facile accomodarci nel danno che nel benessere. È storia umana, inutile dire che non dovrebbe essere così: è così. Viviamo per moto di inerzia. Per pigrizia. Per accidia. Ciononostante, abbiamo la possibilità, sempre, di risvegliarci e di osservare il nostro comportamento e di decidere e di agire.
Facile? Tutt’altro, ma anche questa è una scelta: riattivare l’attenzione, osservarci nelle abitudini del quotidiano o rimanere dormienti. Essere dormienti è già una prigione. Riattivare l’attenzione è aprire la porta della prigione, di cui noi abbiamo le chiavi.