Ti racconto

Il gesto

Un mio amico mi regala una raccolta di saggi di George Orwell, Nel ventre della balena. Scorro l’indice e mi fermo su Perché scrivo, dieci pagine sul perché si scrive. Quello stesso mio amico, durante una chiacchierata, mi dice Innamòrati della tua misura e me lo dice come se mi stesse dicendo Domani piove, ma per me Innamòrati della tua misura diventa grandine.
Metto insieme Orwell e la mia misura e ne escono fuori questi pensieri scomposti.


Non è il romanzo la mia misura, né il racconto, né la sceneggiatura, né il pamphlet, tanto meno la poesia. La mia misura è la parola.
Ogni parola.
Ogni parola scelta che esclude le altre.
Ogni parola scelta per il significato che la distingue.
Così, per esempio, ’attendere’ e ‘aspettare’ non dicono la stessa cosa (i sinonimi non esistono). ‘Attendere’ mi porta ad aprire le braccia e a mettermi nella predisposizione dello sconosciuto, di vedere ciò che capita; mentre ‘aspettare’ si tira dietro una pretesa: mi aspetto che l’impiegato delle poste sia veloce e competente, mi aspetto che tu faccia ciò che voglio; il verbo ‘aspettare’ nella mia testa inclina verso l’arroganza, ‘attendere’ verso la dolcezza.
Che dire poi di ‘deporre’? ‘Deporre’ chiede il complemento oggetto, non basta a se stesso. Posso dire: ‘Io mangio’, ma se dico ‘Io depongo’, subito viene da chiedere Che cosa? Deporre le armi (arrendersi), la corona (abdicare), il vestito (smonacarsi), la talare (spretarsi), il ventre (evacuare), deporre le uova, un’idea, una deposizione. ‘Deporre’ compie un movimento, dall’alto al basso, toglie, è privativo, mi mostra vulnerabile.


Scelgo ogni parola per l’incanto che mi evoca. Per il suono in sé e per il suono accostato al suono della parola che segue o che precede; per quell’entusiasmo estetico di cui parla Orwell nel suo saggio, a cui aggiunge altre tre motivazioni per scrivere: 1. Il semplice egoismo; 2. L’impulso storico; 3. Lo scopo politico. Io scrivo per entusiasmo estetico-musicale, per il piacere di sentirmi le parole in testa che ronzano, lottano, schiamazzano, si incontrano, si acciuffano, si lasciano, mi invadono, mi terrorizzano, mi abbracciano, e alla fine, esausta, scrivo scegliendo quella parola, e non un’altra, che depongo sulla carta. Al disopra del livello di una guida stradale nessun libro è del tutto immune da considerazioni estetiche, scrive Orwell.


Con l’aumentare dei corsi di scrittura e delle fiere del libro l’invito a scrivere a livello mediatico è aumentato; pertanto, e per fortuna, le persone hanno la possibilità di scrivere e di pubblicare con maggiore facilità rispetto al passato. Tuttavia, sarebbe buona cosa comprendere la misura del proprio scrivere, individuare l’ambito entro cui si vuole scrivere, il genere, o che cosa si vuole fare con il proprio scrivere.
Ho trovato il coraggio di sbarazzarmi di narratore narratario autore, voce punto di vista focus, incipit struttura dialoghi finale, ritmo moduli ritmici, illusione finzione biografia autofiction. Non che tutto questo in qualche modo non c’entri con qualsiasi cosa mi piaccia scrivere, ma mi libera dal piegare tutta questa roba in una finzione che non è propriamente mia. Quello che davvero davvero mi piace fare è quel gesto, monotono, ripetuto, uguale a sé e differente da sé, che è l’avvicinarmi alla scrivania, spostare la sedia, sedermi, appoggiare la tazza di caffè sul piano, aprire il computer, o prendere quaderno e matita, e scrivere. E stare, nella solitudine più profonda della consueta mia solitudine. Scrivere qualsiasi cosa ma scrivere, purché stia seduta alla maledetta-benedetta scrivania, ogni giorno. Questo è il gesto che mi precede nello scrivere e che mi ha dà la forma. Non sono i ruoli, avuti, abbandonati o persistenti, non è la professione, a darmi la forma, ma quel gesto di stare seduta davanti a un tavolo con le parole da mettere una dopo l’altra. Bene, male, poco importa. È qui che sto, in questo gesto minimo, con il segno grafico minimo che compone la scrittura. Scrivo per e grazie a quel gesto, che precede il mio scrivere.

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