Ti racconto

Il mio Salone del Libro

Era di maggio. Era il maggio 1989. Era la seconda edizione del Salone del Libro, un salone più piccolo, molto più piccolo, la sede era a Torino Esposizione, al parco del Valentino.
Era la mia prima esperienza come standista, avevo 24 anni, e mi sarei laureata a novembre, due giorni prima del crollo del Muro di Berlino. Ero standista per la casa editrice Pungitopo, di Patti (ME), casa editrice che meravigliosamente ancora esiste, pervicacemente r-esiste.
C’erano anche case editrici straniere, non tante, le più famose o quelle che si potevano permettere di stare fuori paese per una settimana circa. E non c’erano tanti eventi, sicuramente c’erano incontri per professionisti: editori, librai, distributori. La filiera del libro. Natalia Ginzburg, alla prima edizione, aveva detto che non capiva che cosa ci facessero gli scrittori lì, dal momento che gli scrittori avrebbero dovuto essere a casa a scrivere. Ma sappiamo che lei era tagliata in una certa maniera.
Conobbi involontariamente alcuni personaggi, per esempio Vittorio Sgarbi, che entrò nello stand in compagnia di due guardie del corpo alte bionde perturbanti voluminose. Lui mi sorrise, sornione, chiedendomi di Natale Tedesco, docente di letteratura italiana, pubblicato dalla Pungitopo, e mi raccontò una cosa curiosa. Lui e Tedesco erano presenti a un convegno, il tema non lo ricordo assolutamente più; Tedesco parlò prima di Sgarbi, e Tedesco fece uno sgambetto a Sgarbi, anticipando i riferimenti e gli argomenti di cui Sgarbi avrebbe parlato poco dopo. Sgarbi lo raccontava con tono divertito e ammirato, perché «Sono certo che nessun altro sarebbe stato in grado di sapere che cosa avrei detto, e questo dimostra l’intelligenza fine acuta e raffinata di Tedesco. Però mi ha tolto la scena, maledetto lui.» (cito a memoria).
Come ho già scritto avevo 24 anni e ancora nel pieno del piacere orgiastico della conoscenza letteraria, dei libri, del futuro che mi stavo costruendo. Lavorare, anche solo come standista per una casa editrice, mi pareva già un bel modo per entrare nel mondo del lavoro.
L’editore di Pungitopo, Lucio Falcone, andava e veniva dallo stand, ne approfittò per incontrare autori o altri editori o i distributori, il punto più dolente, per una piccola casa editrice; pertanto ero quasi tutto il tempo da sola, dal mattino alla sera, orchestrando le pipì quando lui era presente o chiedendo al collega dello stand accanto di sorvegliare il mio, quando la fame mi stava sfinendo.
Dopo di allora ho fatto la standista ancora per la Pungitopo, poi per l’Associazione Italiana Biblioteche, poi per le Biblioteche Civiche, poi per gli editori piemontesi riuniti, sono intervenuta in qualche evento come relatrice, a volte come organizzatrice, ho partecipato a un buon numero di conferenze di grandi nomi della letteratura italiana e straniera, insomma, negli anni, credo di aver partecipato attivamente per una quindici di anni.
Ma di tutto il tornado del Salone confesso che ciò che trattengo con maggior piacere è il clima elettrizzante del giorno prima, quando ancora l’80% degli stand devono essere montati e ti chiedi Come diavolo è possibile che per domani sarà tutto a posto?, e poi la curiosità delle mattinate, Venderemo? Quanto venderemo?, le migliaia di volti, uomini donne bambini vecchi giovani perditempo sapientoni gente comune e gente famosa, in carrozzina, con le stampelle, sorridenti o incazzati, e la stanchezza che arriva con il trascorrere delle ore, e il sentirsi sempre più rimbambita e le gambe che fanno male e i piedi gonfi e vorresti che tutti fossero inghiottiti all’istante dal pavimento che crolla sotto i piedi, e la nausea crescente di libri e di editori e di scrittori e non vedi l’ora di andare a casa, anche perché l’ultima pipì l’hai fatta tre ore prima, per la troppa coda ai bagni e la pulizia inesistente da almeno mezza giornata.
Per poi ricominciare il giorno dopo, come se nulla fosse successo, con lo stesso entusiasmo e la stessa curiosità e la sicurezza di muoversi tra gli stand, tanto ormai hai capito che l’Einaudi è lì, accanto a Iperborea, e Codice è… Quando poi inizi a inscatolare, le ultime ore dell’ultimo giorno, quando ti arriva il ritardatario che vuole esattamente quel libro che hai appena messo via, quando incominci a fare i conti delle entrate, e poi lasci il quadrato che è stata la tua casa per cinque giorni, ti arriva lo svuotamento, la melanconia della girandola di persone e di progetti che non si faranno mai e dei libri che mai leggerai e delle parole vuote pronunciate. Soprattutto ti viene la nostalgia dell’entusiasmo dell’inizio e di quello che avrebbe potuto essere e a volte non era.

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