Ti racconto

La doppia fuga di una torinese

Avevano deciso di fare come i meridionali, in fondo non era un cattivo sistema, se passavano due o tre notti fuori di casa, dopo i padri e le madri avrebbero dovuto dire di sì anche se erano piemontesi, perché avrebbe potuto darsi che lei attendesse un bambino, e non occorreva neppure andare lontano; erano semplicemente andati in un piccolo albergo vicino al Po, nella stessa Torino, e adesso, in quel pomeriggio piovigginoso, erano soli, nella stanza anche piuttosto elegante, e ampia, con una grande specchiera che rifletteva gli alberi gocciolanti del viale, bastava rimanere lì un paio di giorni, poi telefonare a casa: avrebbero dovuto dire di sì.
Egli si frugava nella tasca della giacca, vanamente: «Le sigarette», disse, era alto e biondo e gentile, anche lei era alta e buona, come fosse sua sorella. La baciò ancora. «Vado a prenderle, torno subito.»
Sola nella stanza, lei guardò il letto matrimoniale, era qualche cosa d’impudico, la mise a disagio, non aveva pensato di doversi spogliare lì, davanti a lui, sapeva che sarebbe stato così, ma il letto glielo diceva brutalmente, lo stomaco le si schiuse come in un conato che non venne, fuggire era stato facile, ma quello no. Guardò dalla finestra, vide lui che camminava rasente il muro per ripararsi dalla pioggia, verso un tabaccaio. Riguardò il letto e un’intensa, abbagliante voglia di fuggire da quella stanza le chiuse la gola. Era impossibile restare. Prese la grossa borsa che le serviva da valigetta e uscì senza più pensare.
«Sei sempre in ritardo», le disse sua madre quando arrivò a casa, «chi sa poi, che cosa hai da fare».

Tratto da : Giorgio Scerbanenco, La vita in una pagina, Mondadori, Milano 1989, p. 111

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