Le parole non dette sono quelle che rimangono in gola e strozzano la voce; poi ci sono quelle ripetute nel cervello, senza via di uscita; e ancora quelle che aggrovigliano le budella, bruciano lo stomaco e muoiono lì.
Oppure ci sono parole che non avrebbero dovuto essere dette e che appena pronunciate si tramutano in spade taglienti e spezzano legami. Sono le parole di emozioni non contenute, veloci ad essere provate, lente ad andarsene.
Calma. Durante la pandemia ho misurato le parole entrando nel silenzio volato a me dalla strada: le macchine non passavano, il tempo non era scandito dalla vibrante allegria di studenti e studentesse, non c’erano le voci sottili di bimbi, il ciarlare di adulti ad incroci di strada. La mente ha rallentato il tempo del pensiero, percepivo meglio l’aria che entrava ed usciva in me, grazie a un respiro spontaneo.
Precipitare. Il mio sguardo era spesso rivolto al passato, a ricordi di una me che vedo sbiadita. In punta al precipizio del non so che cosa capiterà, rivedevo il bagaglio da tenere e quello da accantonare. Pervasiva la tentazione di lasciarmi andare in caduta libera. Come va, va.
Su e giù. Tra i tentativi di capire qualcosa del tempo anomalo e l’obbligo di vivere con sicurezza intima, ho telefonato a persone a cui non avevo rivolto più parola, chiusa in un orgoglio ottuso o nella fretta del quotidiano. Al contempo, ho salutato parole, e con esse azioni e pensieri e sentimenti, che non mi sono più utili.
E ora? Ora che siamo nella fase 3 – ci siamo no? – mi sto chiedendo che cosa farne delle troppe parole, gli avverbi e gli aggettivi in eccesso, le parole che specificano oltre il necessario, le ridondanze, le parole scontate; e mi sto chiedendo come condurre fuori le parole tenute dentro il corpo, per creare nuove realtà.
Questa ricerca mette all’opera i sentimenti, i pensieri e infine le azioni. Non voglio mettermi fretta, voglio che diventi una scelta ordinaria. Dello straordinario ho fatto una scorpacciata.