Quando qualcuno mi chiede un suggerimento su che cosa leggere mi viene male. Un po’ perché d’improvviso non ricordo più alcun titolo, un po’ perché come si fa a sapere i gusti altrui? Così ho deciso di tenermi in tasca due tre libri che ho molto amato, per non rimanere a bocca asciutta.
Uno di questi è Mille anni che sto qui di Mariolina Venezia.
Sono arrivata a lei, a Mariolina Venezia, dopo aver visto una puntata della serie televisiva Imma Tataranni Sostituto procuratore. Al di là del fatto che amo la recitazione di Vanessa Scalera nei panni della protagonista, e di Massimiliano Gallo, nei panni del marito, ho trovato buona la sceneggiatura e siccome da film passo a film e da libro a libro sono andata a cercare i nomi degli autori e ho scovato tra gli altri quello di Mariolina Venezia, autrice di una serie di libri gialli, con protagonista Imma Tataranni, appunto. Di lì il salto è stato veloce e la lettura anche, perché sono andata a scovare il libro per cui ha avuto maggior successo letterario (Premio Campiello 2007), per me al momento la sua opera meglio riuscita, ossia Mille anni che sto qui.
Due i punti di nota (per me).
1. Una lingua serrata, stretta, a tratti ostica e dialettale, che segue le vicende degli antenati di Gioia, narratrice e personaggio della storia, una lingua che deve raccontare un pezzo di Italia del sud, la Lucania, a partire dall’Unità d’Italia (1861), quando le parole delle persone non colte erano parole di oggetti e situazioni concrete, perché le persone dovevano raccontare della loro fatica, del commercio e del pane da comprare. Via via che la storia prosegue, la lingua si fa meno spuria – soprattutto i dialoghi -, fino ad arrivare all’italiano degli anni Ottanta. Sapere piegare la lingua ai gesti delle persone non è impresa facile.
2. Si parla del tempo, il tempo orizzontale, che passa da un’azione a un’altra, quello in cui siamo immersi, e che disegniamo come linea continua, e il tempo verticale, che ci dice che ciò che siamo adesso è il risultato non solo delle nostre decisioni, ma anche delle scelte fatte dalle persone che nell’albero genealogico ci hanno preceduto.
Mariolina Venezia crea insomma una croce, con cui divide, come gli assi cartesiani, lo scenario delle sue storie, perché se è vero che è un romanzo con una trama e uno sviluppo e anche vero che vi si possono trovare più storie, il cui disegno globale si può vedere quando più ci si allontana dal focus.
Come tutte le storie ben riuscite, la narrazione è un intreccio di sentimenti e di azioni e tra i tanti stati d’animo è riproposto più volte quello della nostalgia.
C’è la nostalgia tenace, un senso di solitudine e di vertigine che si placò soltanto più tardi quando dalla Via Nuova, tornando, vide spuntare le macerie della chiesa caduta di Grottole, ed è la nostalgia che ci prende quando siamo in un posto che non conosciamo e che ci porta paura; c’è la nostalgia che ha un sapore meno aspro dell’angoscia di stare lontano dalla propria casa, quando si ha poco da mangiare e ci si nutre di sogni, che non sfamano; c’è la nostalgia legata a un odore penetrante, quello dell’erba medica respirato in un momento di passione carnale, o dolce, il profumo del gelsomino, che riporta all’amica di scuola tanto amata; c’è la nostalgia di un luogo mai visto, la Costa Azzurra, ma immaginato attraverso la lettura bulimica di romanzi, lasciati in eredità dal padre; c’è la nostalgia che non si sa da dove arrivi, la nostalgia stimolata dai luoghi o dalle persone o dal cibo o dalle chiacchiere, imprecisa e tuttavia viva, che ci riporta a un’era dorata; e c’è, infine, la nostalgia di un dolore carissimo, di lacrime, di curiosità insoddisfatta, di prigionia, che è in realtà la nostalgia del tempo che è andato e di quello che noi siamo stati.
La parola nostalgia deriva dal greco, nostos = ritorno e algos = dolore, e come sempre questa lingua ci restituisce l’esattezza di quello che si prova, un dolore, caldo, e al contempo pungente, che ci fa tornare a quello che eravamo quando abbiamo visto, gustato, toccato, ascoltato, odorato. Si risvegliano i sensi e con essi i ricordi e subito il corpo si mette in moto e ci dice, anche fisicamente, oltre che con i pensieri, che un tempo siamo stati una persona e che in parte non lo siamo più. Vi è la nostalgia che ci porta a troppo dolore, e che pertanto rigettiamo, ma vi è anche la nostalgia di una coerenza nelle cose, una stabilità, come scrive Virginia Woolf in Gita al faro, riportandoci a un momento fermo, rispetto al caos del presente. Spesso il passato si ripropone alla nostra memoria come un tempo stabile, perché è smussato, con gli angoli emotivi meno penetranti. A volte, la nostalgia ci dà un senso di saggezza, di lontana soddisfazione di aver vissuto: nonostante le conseguenze, comunque siamo stati e abbiamo vissuto.