Ogni volta che leggo il racconto di Herman Melville, Bartleby: Lo scrivano, provo la stessa sensazione: libertà. Non sono sicura che questo fosse l’intento di Melville, e poco mi importa. Molto più interessante seguire le mosse di Bartleby e le reazioni del suo capo, che rimane interdetto, infastidito, insolentito, insomma, incapace di sostenere diniego ripetuto senza spiegazioni.
Sono un uomo piuttosto avanti negli anni. La natura della mia professione mi ha portato, nel corso degli ultimi tre decenni, in contatto, e non soltanto nel solito contatto, con una categoria di uomini interessante all’apparenza e in qualche modo singolare, sui quali, per quanto ne so, finora non è mai stato scritto nulla: mi riferisco ai copisti legali ovvero agli scrivani.
Bartleby è uno scrivano che lavora per un avvocato di Wall Street e copia, con zelo maniacale, pagine e pagine di atti amministrativi. Solo questo, un lavoro utile semplice e ripetitivo. All’interno di questa ripetizione se ne installa un’altra, che diventa un gesto di disobbedienza, senza rivendicazioni o schiamazzi, un gesto portato fino a conseguenze estreme.
Il racconto si chiude su un’ipotesi di narrazione al limite del verosimile, ed è questo che mi interessa portare all’attenzione. Il preferirei di no di Bartleby lo scrivano è una postura di disaccordo sostenuta fino alla punta estrema del vivere umano.
Nella tendenza umana a cercare equilibrio, sicurezza, conferme, ci infastidiamo di fronte ad eventi che modificano l’ordine e la direzione del quotidiano. Allora, proviamo a spingere le ipotesi di realtà oltre il socialmente accettabile, oltre la ragione, anche solo con il pensiero e chiediamoci: che cosa può accadere a me, che cosa può accadere alle persone che mi circondano se compio un gesto inatteso? Perché di gesti stiamo parlando, di parole pronunciate (o non pronunciate) a cui seguono azioni in senso contrario alle abitudini consolidate. Paventiamo l’imprevisto quando invece è proprio questo che ci scardina da comportamenti statici.