Lo spaventapasseri di Cyrulnik è un uomo o una donna che soffre meno perché ha un cuore di legno e paglia sotto il cappello. «È sufficiente, tuttavia, che uno spaventapasseri incontri un uomo vivo che gli infondi un’anima, perché sia di nuovo tentato dal dolore di vivere.». I traumi, che siano vissuti da bambini o da adulti, congelano la narrazione, traviano lo sguardo, ci ammutoliscono, per non farci toccare il dolore.
In Autobiografia di uno spaventapasseri, Boris Cyrulnik, medico, psichiatra, psicoanalista, parla di resilienza attraverso storie di uomini, donne, bambini che hanno avuto un trauma per cause naturali, per violenza fisica e psichica, per incapacità genitoriale o familiare, per abbandono, per mancata verità.
Il libro parla di resilienza.
La resilienza è la capacità che ha un essere umano di rispondere a un urto, ossia a un trauma. Cyrulnik lo prende in prestito dal mondo della fisica e lo incastona nel mondo della psicologia. Non è solo adattamento a nuove condizioni di vita; è una spinta di ricerca della verità e di ri-racconto di sé, che si può attivare subito dopo il trauma o molti anni dopo. La resilienza è il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire, ri-organizzare positivamente la propria vita, nonostante «aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare a un esito negativo.». Esiste una resilienza naturale o spontanea, che si accende se la persona aveva, prima del trauma, un contesto familiare e sociale affettivo e di ascolto, se non manifestava inceppamenti psico-emotivi, se aveva sviluppate capacità razionali, affettive, istintive. Questo tipo di resilienza può contare sulle relazioni forti pre-esistenti.
Esiste una resilienza strutturata, che chiede aiuto esterno, oltre al necessario processo di nuova auto-narrazione. Può capitare che le persone abbandonate o che hanno perso i genitori o la famiglia, a distanza di tempo desiderino conoscere la verità, un’altra da quella che già sanno, o che hanno immaginato o che è stata loro raccontata. Vogliono sapere. Allora si documentano, fanno interviste, ricercano foto, per avere nuovi racconti che convergano a modellare l’identità. Da una situazione di caos, la persona ricerca una direzione nuova – poiché non riusciamo a vivere senza direzione -, ed è la ricerca di significato, dice Cyrulnik, che ha valore, non il significato in sé stesso. Queste persone si prendono il tempo per raccontare con parole nuove e proprie quello che hanno subìto, e che era stato stigmatizzato per mancanza di ascolto, per pregiudizi, per ignoranza, per credenze. Pensiamo ai figli nati da donne di un paese invaso in tempo di guerra e da padri soldati dell’esercito nemico; o ai sopravvissuti ai genocidi; o a chi ha perso cose e persone, ha perso tutto, a causa di sciagure naturali (terremoti, tsunami); pensiamo ai figli di mafiosi o delinquenti; o a chi ha subìto una separazione coniugale, che polverizza il perno su cui ha costruito la vita. Sono colpi spietati che hanno uno sviluppo con finale positivo o negativo.
Le difficoltà sorgono quando il racconto non è accolto dal contesto familiare e sociale o quando il segreto è l’unica via per sopravvivere. Come la storia, ricorda Cyrulnik, di una studentessa del Ruanda, che viveva in Belgio ed è invitata a una festa di amici che le vogliono bene e che vogliono aiutarla. Dopo buon cibo e un tempo rilassato la ragazza finalmente racconta: «Quando ho visto le testa di mia madre sul tavolo, la mia anima si è fatta di ghiaccio. Quando gli assassini mi hanno afferrata e stuprata sono restata indifferente a quello che mi succedeva. Essi stupravano qualcun altro, la mia anima era altrove. Ero già morta.» A quel punto la festa finisce, gli amici smettono di parlare né si muovono più. Come si fa a sostenere questa storia?Cyrulnik parla di possibilità di raccontare quando l’anello relazionale è pronto all’ascolto e al silenzio. Chi ha subìto può parlare se le relazioni sociali e familiari sanno accogliere e ascoltare e attendere il tempo giusto del racconto sia della persona sia il proprio. Allora possiamo dire che quando parliamo di resilienza è d’obbligo parlare anche dell’ambiente circostante. Il nuovo racconto si costruisce con l’aiuto delle persone intorno, che creano un dialogo di domande, attese, risposte, scambi, pareri, e contatto umano.
Se volessi dare un’immagine alla resilienza, penso a due mani aperte a conca; al centro, il nocciolo di un avocado, nudo, scuro, duro, che ha perso sia la buccia che lo proteggeva sia la polpa. Il nocciolo è la persona ferita, le mani il mondo delle relazioni. Se apriamo le mani il nocciolo cade, se interriamo il nocciolo e versiamo acqua c’è speranza di farlo germogliare. È lì la nuova narrazione, nel germoglio.